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28 anni fa, in Italia, veniva redatto l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, per istituire un regime carcerario speciale. Tale provvedimento nasceva in risposta agli atti terroristici da parte di partiti politici e criminalità organizzata nell’Italia dei primi anni ’90.
In particolare, il bisogno era quello di evitare che boss ed esponenti di rilievo della criminalità italiana potessero comunicare con l’esterno e continuare ad organizzare e dirigere atti criminali.
Il regime detentivo speciale del 41 bis prevede uno stretto controllo del detenuto con il fine di assicurarne l’isolamento. La persona, quindi, vive in una cella singola, può effettuare chiamate telefoniche mensili controllate e ha contatti ridotti anche con il personale del carcere ed altri detenuti.
In ripetute occasioni, le rigide limitazioni del regime di detenzione speciale 41 bis hanno attirato l’attenzione e i puntali giudizi della Corte Europea per i Diritti Umani (“CEDU”), la quale è intervenuta in merito al rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo nell’attuazione di questo regime.
La Commissione straordinaria del Senato Italiano per la tutela e la promozione dei diritti umani chiarisce che la CEDU non ha riscontrato alcuna violazione della Convenzione Europea sui Diritti Umani nelle predisposizioni dettate dall’articolo 41 bis, mentre ha invece messo in evidenza un possibile contrasto tra i principi della Convenzione e l’articolo dell’ordinamento penitenziario in questione.
Ad esempio, nel caso Enea c. Italia del 2009, la CEDU ha ritenuto che ci fosse un’evidente violazione dell’art. 8 della Convenzione, il quello che sancisce il rispetto della vita privata e familiare. La corrispondenza di Salvatore Enea, considerato coinvolto nei crimini di Cosa Nostra e quindi detenuto nel regime carcerario speciale 41 bis, era stata costantemente controllata dal momento della sua detenzione in carcere, violando quindi i diritti del detenuto.
Nello stesso caso citato, la CEDU si è espressa anche riguardo lo stato di salute del detenuto, sostenendo che “le condizioni di detenzione di una persona malata devono garantire la tutela della sua salute,” in linea con l’art. 3 della Convenzione che protegge l’integrità fisica della persona.
Il sistema penitenziario italiano ha ancora strada da fare per ottemperare ai principi europei di protezione dei diritti umani e alle raccomandazioni che il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (“CPT”) ha rinnovato in un report del 2017, sottolineando la necessità di più coordinazione tra il carcere e il sistema sanitario regionale per il trasferimento di detenuti in gravi condizioni di salute.
Probabilmente, è anche su questa necessità che si sono basate le recenti decisioni prese dal Magistrato di Sorveglianza di Milano e dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari sul trasferimento di due detenuti dal regime speciale 41 bis alla detenzione domiciliare. Evidentemente, le strutture sanitarie delle carceri non sono adeguate a tenere sotto controllo le condizioni di salute dei loro ospiti e, come già noto da mesi, i sistemi sanitari delle regioni italiane sono stati messi a dura prova dalla gestione dei ricoveri di pazienti Covid-19, quindi vi sarebbe stato un alto rischio di contagio.
I detenuti in entrambe le carceri di massima sicurezza erano stati per crimini di mafia, ma si trovavano in gravi condizioni di salute e necessitavano cure specifiche. Il detenuto collocato a Milano aveva quasi terminato di scontare la pena. Per il detenuto a Sassari, invece, non era stata data alcuna risposta riguardo una migliore locazione per assicurargli le cure necessarie, quindi Tribunale ha ritenuto poco rischioso il trasferimento ai domiciliari dato che il soggetto si era costituito spontaneamente e aveva trascorso un lungo periodo in carcere, elementi che potrebbero aver contribuito ad un allentamento dei legami con la criminalità organizzata.
Le decisioni hanno chiaramente suscitato molto scalpore nell’opinione pubblica, perché i media parlano di ‘scarcerazione di boss mafiosi,’ dinnanzi alla quale molti italiani appaiono mostrare indignazione. In effetti, non si può sottovalutare la pericolosità degli individui e la possibilità di continuare ad operare, discriminanti che avevano determinato l’applicazione del regime di detenzione 41 bis. Non sono quindi mancate le polemiche nei confronti del Ministro della Giustizia Bonafede il quale, alcuni giorni più tardi, ha firmato un decreto per il ritorno in carcere.
Il regime di detenzione speciale 41 bis rappresenta senza dubbio un importante spunto di riflessione per un dibattito più ampio sulla necessaria coesistenza tra la condanna della criminalità e il rispetto dei diritti umani. Molti italiani sono preoccupati di essere conosciuti a livello globale per gli atti criminali delle organizzazioni a stampo mafioso; la condanna di boss mafiosi e di persone legate alla mafia nel rispetto dei loro diritti potrebbe essere un’opportunità per l’Italia per dimostrare al mondo che la criminalità può essere combattuta senza privare alcun essere umano dei suoi diritti fondamentali e inderogabili.
- Quanto contribuisce un regime carcerario speciale come il 41 bis nella lotta alla criminalità organizzata?
- In molti sostengono che il trasferimento alla detenzione domiciliare potesse essere evitato attraverso maggiori investimenti nelle strutture sanitarie delle carceri. Cosa ne pensi?
Letture consigliate
Archivio Penale, Rapporto della Commissione diritti umani sul regime detentivo speciale 41-bis